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Mostra AGAINandAGAINandAGAINand al Mambo di Bologna

La Mostra AGAINandAGAINandAGAINand al Mambo di Bologna: gli artisti e le opere, i periodi e gli orari, le informazioni per la visita.

Mostra AGAINandAGAINandAGAINand  BolognaAGAINandAGAINandAGAINand - Mambo, via Don Giovanni Minzoni 14 - Bologna

Mostra in corso dal 23 gennaio al 3 maggio 2020

La mostra espone le opere di sette tra i più noti artisti contemporanei: Ed Atkins, Luca Francesconi, Apostolos Georgiou, Ragnar Kjartansson, Susan Philipsz, Cally Spooner, Apichatpong Weerasethakul.

Comunicato stampa della Mostra La Galleria de' Foscherari 1962 - 2018

La Sala delle Ciminiere del museo bolognese appare trasfigurata dalla presenza peculiare dei lavori di sette tra i più noti artisti contemporanei: Ed Atkins, Luca Francesconi, Apostolos Georgiou, Ragnar Kjartansson, Susan Philipsz, Cally Spooner, Apichatpong Weerasethakul.

La mostra, a cura di Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì, rimane aperta al pubblico dal 23 gennaio al 3 maggio 2020 ed è uno dei Main project di ART CITY Bologna 2020, il programma istituzionale di mostre, eventi e iniziative speciali promosso dal Comune di Bologna in collaborazione con BolognaFiere in occasione di Arte Fiera.

Il tema della ciclicità e del superamento della rappresentazione lineare del tempo pervade il dibattito scientifico contemporaneo a tal punto da poter essere considerato dai fisici il centro di una rivoluzione del pensiero che ci sta portando a riconsiderare l'idea stessa di tempo attraverso nuove teorie come quella delle stringhe e della gravità quantistica a loop.

AGAINandAGAINandAGAINand si pone l’obiettivo di indagare il tema del loop, della ripetizione e della ciclicità nella contemporaneità, analizzandolo da diverse angolazioni attraverso le opere di artisti che hanno posto l’argomento al centro della propria ricerca.

Il progetto espositivo si sviluppa seguendo diversi approcci: uno sociologico che guarda all’impatto delle nuove tecnologie e dei nuovi sistemi di organizzazione del lavoro sulla vita psicologica e fisica dell’essere umano; uno filosofico e religioso che prende ispirazione da forme di conoscenza e di credenza basate sull’olismo, sulla reincarnazione e sulla ciclicità temporale; fino ad uno ecologico che propone nuovi modelli di produzione e consumo basati su una rinnovata coscienza della cultura rurale.

Gli autori delle opere allestite negli spazi del MAMbo provengono da differenti parti del mondo e problematizzano il tema, mostrando come nell’arte sia oggi presente una riflessione sul tempo e sulle forme di conoscenza e di potere che da esso scaturiscono.
Spaziando tra i diversi media - performance, video, scultura, pittura, fotografia e installazione - il progetto propone un percorso strutturato in ambienti immersivi, caratterizzati da intensità temporali differenti.

L’artista greco Apostolos Georgiou (Thessaloniki, 1952, vive e lavora ad Atene) realizza dipinti che rappresentano uomini e donne in ambienti lavorativi e domestici. Immersi in un’atmosfera estraniante, i personaggi vivono scene di quotidianità in cui riecheggiano le paure, le angosce e i tormenti di una classe media alienata dalla ripetitività del lavoro impiegatizio e della vita familiare.
Con una pittura tonale espressa tramite pennellate decise e squadrate, Apostolos Georgiou raffigura uomini e donne intrappolati in ambienti domestici e lavorativi quotidiani.
Osservando gli abiti e i pochi dettagli presenti nei dipinti, è possibile riconoscere il costume degli anni Cinquanta, periodo in cui prende forma una nuova società dei servizi che delinea precisi modelli di lavoro e di famiglia, destinati a diventare quelli comuni della società occidentale.
Grazie a un attento utilizzo del non-finito come tecnica di costruzione degli ambienti, l'artista trasforma un periodo storico in una dimensione senza tempo. Ciò che non muta e che affiora dai volti dei personaggi sono le emozioni, la vita interiore di un essere umano che rivendica la propria realtà. Sospesi in un’atmosfera narrativa senza uscita, essi appaiono goffi e incapaci di gestire la propria condizione, cercando riparo su se stessi. La loro interiorità è resa evidente nei gesti e nelle situazioni surreali rappresentati: porgere nervosamente dei fiori alla propria amata, rimanere immobili tra bambini che giocano, tenere in mano fogli in modo confuso, gesticolare velocemente, lavorare in campagna con gli abiti da ufficio. Così come accade in una narrazione tragicomica, i personaggi, proprio mascherando le loro paure, enfatizzano la propria fragilità.

Ragnar Kjartansson (Reykjavík, 1976, vive e lavora a Reykjavík) con atteggiamento nichilista e disincantato mette in discussione e gioca con gli stereotipi contemporanei. La sua ricerca si sviluppa proprio a partire da quei clichè narrativi, linguistici e identitari prodotti dalla cultura occidentale che includono, tra gli altri, l’oggettificazione del corpo femminile, l’ideale di artista dannato, il machismo, il romanticismo nordeuropeo. Nella rielaborazione di questi temi, l'artista mantiene presente una domanda sulla condizione esistenziale dell’essere umano, di cui spesso fornisce un ritratto tragicomico capace di coinvolgere lo spettatore in una intensa esperienza emotiva. Bonjour (2015) è una performance ambientale composta da una imponente scenografia che riproduce nei minimi dettagli la porzione di un villaggio francese, probabilmente degli anni Cinquanta. Mentre una donna prende un vaso di fiori per riempirlo alla fontana, un uomo esce dalla propria casa per fumare una sigaretta e rivolgerle un saluto. Lei risponde timidamente, torna verso la sua abitazione, per poi voltarsi gettando un ultimo sguardo all’estraneo. La scena si ripete ogni cinque minuti per tutta la durata della mostra, accompagnata dalla musica della celebre canzone La Mer di Charles Trenet, 1946. Mentre mette in luce i diversi elementi che definiscono lo stile romantico del cinema e del teatro, l’opera fornisce un’immagine del ‘sempre nuovo’ insito nella ripetizione dello stesso gesto. Bonjour ad oggi è stata presentata unicamente al Palais de Tokyo di Parigi (2015/2016). A Bologna i performer coinvolti sono: Luca Arcangeli, Serena Dibiase, Giulia Lorenzelli, Roberto Papavero, Francesca Pedone e Sergio Scarlatella.

Cally Spooner (Ascot, 1983, vive e lavora tra Atene e Londra) indaga la natura pervasiva della nuova economia dei dati che, grazie all’evoluzione dei canali di informazione, conduce ad un controllo progressivo della vita sociale e interiore degli individui. In particolare, l'artista pone attenzione al linguaggio e alla sua capacità di creare situazioni, di sorreggere sistemi economici e di influenzare, spesso in modo invisibile, le menti e i corpi. Ogni opera è concepita in un primo momento come un testo, che viene a poco a poco riadattato modificando la struttura in base al medium. Questo procedimento di rielaborazione diventa esemplificativo del modo in cui l’artista concepisce le strategie di resistenza: “mantenere irrequieto” lo spazio e il tempo.
DRAG DRAG SOLO (2016) è un video che nasce da una ripresa a porte chiuse della performance parte del più ampio progetto On False Tears and Outsourcing, presentato al New Museum di New York lo stesso anno. La coreografia si sviluppava dall’interpretazione libera di movimenti provenienti dallo sport, di esercizi e pratiche del team building aziendale e della gestualità dei film romantici, con il fine di riflettere sull’impiego di protocolli e convenzioni come risposta al bisogno di comunicare. DRAG DRAG SOLO non è da definirsi come una documentazione, ma come una ulteriore rielaborazione di un lavoro pensato come finito. Mediante una pratica di mediazione, Spooner opera su un piano che definisce una “rehearsal of means”, concependo la ripresa di un discorso, in questo caso una performance, come uno strumento per destabilizzare un ordine stabilito. Il tempo della prova e del tentativo, con il loro persistere e attendere, contengono in sé un’intensità temporale che mette in crisi la crononormatività neoliberale.

Luca Francesconi (Mantova, 1979, vive e lavora a Mantova) ne Il Calendario delle Semine (2009), racconta come “tramite l'agricoltura, l'uomo ha avuto le prime necessità di confrontarsi con il tempo, di ordinarlo e di iniziare a maneggiarlo, quindi teorizzarlo”. Secondo l'artista, la cultura rurale, grazie alla sua capacità di rendere il tempo qualcosa di malleabile, fisico e tangibile, permette all'essere umano di vivere seguendo un ritmo circolare dove tutto torna ogni giorno sotto una nuova forma. Osservando questa particolare concatenazione di eventi, Francesconi sviluppa i propri lavori dalla modifica parziale di oggetti trovati e dalla rappresentazione di strumenti, animali e vegetali provenienti dall'iconografia contadina popolare. Grazie a una riflessione su cicli biologici come la digestione e su quelli produttivi come la rotazione delle colture, l'artista riporta l'attenzione ad un rapporto diretto con la natura per sottolineare come l'estrema industrializzazione della società contemporanea abbia portato a una snaturalizzazione della produzione e del consumo.
In mostra nuove produzioni, oggetti e opere storiche affrontano quindi il tema della ruralità e del tempo ciclico. Nella prima sala un gruppo di sculture composte da uomini stilizzati in ferro, la cui testa è stata sostituita da frutta e ortaggi, mette in scena le dinamiche di potere tra un caporale e alcuni braccianti. La scelta del ferro come materiale del corpo consente di dividere simbolicamente la terra dalla testa degli uomini, sottolineando la spersonalizzazione del lavoro agricolo.
Nella seconda sala, Francesconi fornisce un'ampia riflessione sul ciclo naturale presentando in teche e mensole diversi pesci (reali, finti e rappresentati in nuova forma) catturati in specifiche fasi di trasformazione biologica. Altri oggetti come una pelle di serpente e l'opera Serpente delle risaie (2016) un serpente composto di sassi e palle di riso, rimandano invece alla valenza che questo animale ha assunto nel tempo per raccontare e immaginare i cicli, l'eterno ritorno e la metamorfosi infinita dei corpi.

La ciclicità è alla base anche del concetto di reincarnazione. Apichatpong Weerasethakul (Khon Kaen, Thailandia, 1970, vive e lavora a Chiang Mai, Thailandia) ha approfondito i legami tra la cultura locale e quella occidentale alla luce delle politiche economiche estrattive di forte impatto ambientale. I suoi lavori in mostra creano connessioni tra un passato di tradizioni e credenze religiose e i traumi causati dalla distruzione di ambienti e comunità. Tra i più noti artisti tailandesi, Weerasethakul ha dedicato gran parte della sua ricerca a rinarrare la memoria di un paese, il suo di origine, che negli ultimi anni ha subito brutali occupazioni militari, violente politiche estrattive e un controllo culturale nazionalistico. Tornando sui luoghi della propria infanzia, l’artista racconta la propria storia attraverso una lettura personale che fornisce preziose testimonianze delle credenze e delle superstizioni che ancora scandiscono la quotidianità della popolazione. Storie di fantasmi, spiriti e reincarnazioni definiscono un universo in continua trasformazione, dove ogni creatura è parte di un’infinita rigenerazione ciclica. Pensate come qualcosa di organico, le opere filmiche e le installazioni sono costruite a partire da un attento dialogo tra luce e buio (alla base dei cambiamenti atmosferici), così come dalla compresenza di temporalità e piani di realtà differenti. A Letter to Uncle Boonme (2009) video parte del più ampio progetto Primitive, è ispirato a un libro, che l’artista ha ricevuto in dono da un monaco, in cui viene narrata la storia di Boonme, un uomo proveniente dal nord-est della Thailandia, capace di raccontare le proprie vite passate. In omaggio alla regione di provenienza di Weerasethakul, l’opera è ambientata a Nabua, villaggio distrutto dalle milizie nazionaliste. La sceneggiatura del cortometraggio è ispirata alle diverse reincarnazioni e ai racconti di presunti figli e parenti del protagonista immaginario.

La ricerca di Ed Atkins (Oxford, 1982, vive e lavora a Londra) riflette sulla rappresentazione e sulla creazione della soggettività in un’epoca segnata dalla mediazione digitale. Nei suoi video, la società è osservata tramite gli occhi di un avatar dell'artista che, riprodotto grazie a modelli CG (computer-generated), è ritratto in momenti di solitudine, disperazione e tormento. Safe Conduct (2016) è una video-installazione composta da tre grandi monitor appesi al soffitto, simili a quelli di aeroporti, stazioni e centri commerciali. Il video raffigura il surrogato digitale dell'artista che, ritratto con aspetto quasi cadaverico, vaga per l'area di check-in e di ritiro bagagli di un aeroporto deserto. Il corpo del personaggio viene ridotto in pezzi riconoscibili sui nastri trasportatori insieme a oggetti proibiti come pistole e riferimenti alla morte come teschi e sangue. L'idea di circolarità e di eterno ritorno è presente in diversi aspetti del video, come nella musica scelta, il Boléro di Maurice Ravel che, ripetendosi in un crescendo graduale e continuo, enfatizza il senso di angoscia e cattura del soggetto. Atkins fornisce così un'immagine di un corpo e di un'identità che si disgrega di fronte alla presenza capillare dei sistemi di sicurezza e dell'odierna politica del terrore.

La mostra si apre e si chiude con un’opera audio di Susan Philipsz (Maryhill, Glasgow, 1965, vive e lavora a Berlino) installata in un luogo di passaggio del museo. L’artista indaga lo spazio emotivo e psicologico che si crea nella relazione tra suono, spazio architettonico e soggetto. Giocando con una fruizione imprevista, Philipsz permette al pubblico di ritrovare un’intensità emotiva perduta e di restituire allo spazio pubblico il ruolo di epicentro di incontri, dialoghi e sensazioni. I lavori dell’artista infrangono la neutralità dei non-luoghi contemporanei trasformandoli in siti di trasmis - sione culturale.

Guadalupe (2003-2019) è stata realizzata dall’artista durante una residenza presso Artpace a San Antonio in Texas. Composto di registrazioni sul campo e suono sintetizzato, il lavoro richiama la sensazione di spaesamento e perdita di uno straniero in un paese estero. Grazie alla fusione di più elementi sonori, lo spettatore si trova improvvisamente all’interno di uno spazio pubblico affollato, il cui rumore è accentuato dal risuonare di una versione strumentale lenta della canzone folk I’m So Lonesome I Could Cry di Hank Williams. Pochi secondi dopo, una persona inizia a fischiettare, mentre una voce all’altoparlante sembra collocare la scena in una stazione di autobus. Una donna, in questo caso Philipsz stessa, chiede informazioni per Guadalupe, senza mai riuscire a raggiungerla. Dopo pochi secondi di silenzio, come in un fuori scena, l’artista è rincuorata dall’incontro con un estraneo che le canta dal vivo la canzone di Williams. L’opera si struttura su un movimento circolare ripetuto che richiama l’andamento nervoso di un viaggiatore che, in cerca di indicazioni, tenta di fronteggiare diverse problematiche tra cui le barriere linguistiche. Guadalupe è presentata in questa mostra in una versione inedita, arricchita di registrazioni sul campo ritrovate dall’artista, risalenti al periodo trascorso a San Antonio.

AGAINandAGAINandAGAINand è corredata da una pubblicazione Edizioni MAMbo, a cura di Caterina Molteni, che include un saggio critico del curatore Lorenzo Balbi, schede esplicative delle opere in mostra e una sezione di approfondimento con testi e contributi degli artisti e contenuti inediti sul tema, affidati a teorici contemporanei quali il filosofo Federico Campagna, l’antropologa Elizabeth Povinelli e la stessa Molteni.

La mostra è inoltre accompagnata dall’attività di mediazione del Dipartimento educativo MAMbo per una migliore fruizione del percorso espositivo da parte del pubblico di ogni fascia d’età.

Orari: apertura su prenotazione al numero +39.051.6496611 nei seguenti orari e periodi: da ottobre a maggio il venerdì e sabato dalle 14.00 alle 16.00 e domenica dalle 11.00 alle 13.00; da giugno a settembre il venerdì e sabato dalle 17.00 alle 19.00 e domenica dalle 11.00 alle 13.00.
Biglietti: ingresso libero.
Telefono: +39.051.6496611
E-mail: info@mambo-bologna.org
Sito web: Mambo

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